Predestinata

Il 15 luglio 1998 vengo dichiarata matura, nell’ultimo anno dell’esame ante Riforma Berlinguer. Cinquantadue su sessanta, non male.

Eppure dentro sono vuota. Le benzodiazepine che ho in corpo fanno il loro effetto: niente attacchi di panico, e niente gioia. Una linea piatta che mi illude di essere ferma. Sì, perché uno dei sintomi più persistenti dell’ansia è la sensazione continua di dondolare, come un burattino penzolante dal filo, mentre le gambe non ci sono. Non le sento, continuo a muovermi per puntarmi e stare dritta, compatta. In piedi da sola. Non riesco.

L’ansia è cresciuta silenziosa con me ogni giorno per deflagrare al termine del quarto anno del liceo. Fino ad allora mi sentivo normale, pensavo di possedere il mondo, di poterlo scartare attraversare dominare modellare. Viaggi, l’università in un’altra città, amici, feste, sarei stata splendente e luminosa. Riconosciuta per quello che ero e che per qualche strano motivo nessuno ancora vedeva: speciale.

E invece. Ho 17 anni, fa caldo, un inizio giugno afoso come solo in pianura padana. Sono in classe e ho un capogiro, chiedo di uscire. Mi siedo per terra in corridoio di fronte al telefono pubblico che funziona con le schede, già insidiato dai primi cellulari.

Poi mi alzo piano, mi è già successo, ora passa. Come nell’ora di ginnastica l’anno scorso, quando all’improvviso ho visto tutto annebbiato. Questa volta però è diverso, sento qualcosa che si spezza, in mezzo al petto. Può un muscolo fare crack? Giurerei che fosse quello il rumore provenire dal mio cuore.

Dovevo capirlo prima, che qualcosa si stava rompendo. Quando a 15 anni si spegneva la luce e mi vedevo da fuori, una ragazza che non conoscevo, ma chi era, chi ero. Tachicardia, vertigine, rientra in te, Giulia, sei tu, non vedi? Le tue mani, il tuo corpo. 

O in seconda media, al penultimo banco con la mia amica del cuore – dove sarà ora? L’ho persa, anzi, se n’è andata lei: ha scelto di non chiamarmi più, altra piccola crepa nel cuore. Pensavo di avere finalmente un’amica, dopo le elementari attraversate da estranea. Troppo alta, troppo secchiona, nonostante i miei patetici tentativi di piacere a tutti. O forse a causa loro. 

Quel giorno in seconda media una fiamma di terrore mi sale dalla pancia alla testa: sto male, chi sono, cosa faccio ora, oddio muoio. Cinque secondi di eternità, poi mi calmo spostando l’attenzione su altro – è così che ti hanno insegnato a casa, no? Nascondi sotto il tappeto la polvere che non ti fa respirare.

A 8 anni leggo che una donna vive in un polmone d’acciaio: eccomi, sono io. Ora sto bene, ma tra poco mi ammalerò e dovrò essere rinchiusa in una bara che mi tiene in vita. Il viso riflesso dallo specchietto attaccato sul mio sarcofago, altri specchi ai lati per farmi vedere la tv. 

Mi manca il fiato, lo sento, l’aria non sale dai polmoni, non esce dal naso. Aiuto, mamma, sto male, ti prego fai qualcosa. Nei suoi occhi vedo la mia paura, la sua paura di una figlia dalla vita segnata, come lei, come sua madre prima. Una maledizione che passa nel cordone ombelicale, filtra dalla placenta.

Ho 5 anni, sono nel mio letto ma non riesco a dormire. Invento una sequenza di parole e gesti e devo ripeterla esattamente e senza errori, altrimenti il buio della stanza mi catturerà e non mi lascerà più andare.

Sono appena nata, ma mia madre non può tenermi sul suo petto. Deve riprendersi dall’operazione, e io sono sotto osservazione. Mi guarda dal vetro e ripete: non ce la farò mai, perché l’ho voluta, come si cresce una bambina?

Smart che?

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Nell’agenzia dove lavoro c’è una componente femminile decisamente maggioritaria: lo smartworking quindi è stato spesso evocato, desiderato, e probabilmente mitizzato.

Ora che, a causa della pandemia, il sogno smartworking si è avverato per oltre un anno, la situazione mostra i pregi e i limiti di questo metodo di lavoro.

Il vero punto dirimente è la presenza di figli: se ne hai almeno uno, il tuo working non sarà mai smart. Devi gestire i pargoli a briglia sciolta, con in più l’incombenza dell’home schooling. 

Per me, che ho solo una figlia in prima primaria, tradotto in spiccioli significa: scaricare le lezioni video e i compiti, suddividerli in cartelline per materia e giorno di esecuzione, sottoporglieli sperando di catturare la sua attenzione, dare fondo a tutta la pazienza di cui sono dotata per richiamarla all’ordine mentre è distratta da mille altri input. Infine, ottenuti i preziosi compiti, mandarli alle insegnanti per la correzione.

Questo q u o t i d i a n a m e n t e. E mentre stai cercando di collegarti via Skype con le colleghe, oppure mandare delle email, scrivere dei testi, insomma, lavorare.

Affinché una donna con figli possa davvero lavorare “agilmente” da casa, servono spazio e solitudine; serve, come direbbe la saggia Virginia Woolf, una stanza tutta per sé (e possibilmente qualcuno che controlla che nel frattempo la casa non prenda fuoco).

Ma se pensate che chi è senza figli sia indenne ai disagi, vi sbagliate. 

Per lavorare da casa deve poter contare su almeno due cose certe: una buona connessione e l’accesso ai software e ai documenti aziendali.

Sembra facile, ma chiunque abbia provato a collegarsi da remoto al computer dell’ufficio sa che c’è sempre qualcosa che non va. Non si capisce per quale motivo, il malefico genio delle connessioni VPN dissemina la strada dell’accesso al server di insidiosi ostacoli.

E la rete adsl o la fibra ha dei cali di potenza perché tutti la stanno usando nel palazzo, quindi altro che super velocità.

Altro aspetto da considerare: il tempo di lavoro, a casa, si dilata estremamente. Non ci sono più limiti orari, ogni momento è buono per rispondere a una email o riprendere quel lavoro interrotto.

Esistono però anche aspetti positivi del lavorare a casa: gestione autonoma del tempo, poi… Poi?

Stavo per scrivere “vicinanza alla cucina”, ma questo in realtà è un danno: distrae e, dopo molti giorni, rischia di generare momenti di panico sulla bilancia.

La verità è che ci vuole molta autodisciplina per non essere fagocitati dal telelavoro: bisogna lottare contro l’euforia da mancanza di regole e darsene di precise. Alzarsi a un’ora utile per avere la mattinata davanti per lavorare, non guardare i social se non a cadenze di un paio d’ore, concedersi una sola pausa caffè (breve). Staccarsi dal computer per il pranzo, dedicarsi alla preparazione del cibo come un momento di pulizia mentale, e poi riprendere nel pomeriggio con le stesse regole della mattina.

Tutto questo, sempre che i figli non ti cerchino ogni 5 secondi, la connessione funzioni e i tuoi documenti siano facilmente reperibili.

Insomma, se devo dire la mia: bello lo smartworking, ma non ci vivrei. Ci andrei in vacanza.

 

In fondo

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Seduta sul letto, gambe distese, schiena appoggiata alla testiera.
È così da un po’ di giorni, fatica a mangiare, ha lo sguardo liquido.
Parla poco, piange piano, attorno a lei un’aria densa impregnata di sensi di colpa, biasimo, dolore. Nessuna compassione.

Se sei depressa, un po’ è colpa tua, sei debole, non sai reagire. Questo pensano e spesso dicono quelli che non sanno di cosa parlano. 
Ma è facile sentirsi migliori, se non hai mai lottato con il buio. 
È semplice sentirsi forti, se non hai mai provato la paura più intensa. 
È scontato sentirsi invincibili, se non hai mai dovuto rialzarti da una caduta. 

L. guarda la sua mamma e non sa che pensare. Si sente molto triste, vorrebbe aiutarla ma non sa come. Sente il padre che la rimprovera, le lancia accuse, non la riesce proprio a capire e allora si spazientisce. E la attacca.

La madre non reagisce. Non ci riuscirebbe nemmeno se provasse. È come se la luce che ha dentro si fosse spenta. Le parole le arrivano lontane, sia quelle cattive sia le poche buone.
Fa già così fatica a respirare, ad affrontare un secondo dopo l’altro, senza infrangersi.
Senza rompersi. Tenersi unita, stretta attorno a un filo sottile che la attraversa dall’alto in basso.

Quel giorno esce il film che L. desidera vedere da tanto: ha 6 anni e aspetta emozionata il cartone animato di Natale.
I suoi genitori le hanno promesso che la porteranno, ma la mamma sta male. Non può venire. E non si sa quando riuscirà.

-Vai sola col papà – dice la zia di sua madre. Ma dal tono traspare un ordine, non un suggerimento. La zia è abituata così: decide per tutti, e non si discute. 
La madre di L. lo sa bene, è cresciuta con questa ombra, pronta a giudicare ogni suo passo, a criticare ogni scelta, a distruggere in modo costante e metodico ogni scintilla di iniziativa personale, ogni fiducia in se stessa. 
E anche L. sta crescendo intrappolata da questa cappa che toglie il respiro. Senza che i genitori se ne accorgano e la salvino.

È stabilito: L. andrà al cinema con il padre. Solo loro due.

Nessun adulto le spiega cosa succede, coglie frasi lanciate come pugnali, in una guerra senza vincitori.
Nessuno si china in ginocchio, la guarda negli occhi e le dice: “non è colpa tua se la mamma non sta bene. È malata, ma poi guarirà. E ti ama, sempre. Anche se ora sei spaventata e triste, ricordati che questo momento passerà”. 

Allora L. prova a capire da sola. E capisce che non è così importante da smuovere sua madre dal torpore della depressione; non è così importante da ricevere rassicurazioni dagli altri adulti che la crescono; non è così importante da essere considerata una persona con dei sentimenti. 

Non è abbastanza. 

Queste le parole incise nella sua mente e nel suo cuore. Crescerà con un marchio, convinta di non meritare alcunché. E che, alla fine, niente e nessuno abbiano davvero valore. 

Ora sono passati molti anni e L. è sola, chiusa in casa da oltre un mese. Una situazione anomala, una pandemia, che uccide spietata e obbliga le persone a non avere contatti, per non ammalarsi.

L. è preoccupata, ma in fondo anche contenta. 
Non deve dimostrare niente a nessuno. Non deve superare prove costruite solo nella sua testa per cercare conferme continue. Non deve essere impeccabile. 
Può sbagliare, finalmente, e nessuno la giudicherà. Può lasciar andare, riposarsi da quella tensione che l’accompagna sempre.

L. è triste, ma in fondo è anche sollevata. 
L. si sente sola, ma in fondo sta bene così.
L. vuole tornare alla sua vita normale, ma in fondo non ha fretta.
L. ha più paura di vivere che di morire. 

 

I miei 40 anni sono

I miei 40 anni sono

Blackout durati a lungo
Periodi di cui non ricordo quasi nulla
Ho conosciuto i miei demoni
Li ho odiati e difesi
Ho provato a ignorarli
E alla fine dovevo solo lasciarli andare.
Ho finto una me che non esisteva
Non con coscienza,
ma per disperazione
Sono stata fortunata
Amiche che ci sono da sempre
Io mi sarei arresa
Loro no
Ho cercato amore in posti sbagliati
Ho dato amore a persone sbagliate
Ho pianto, meno di ciò che avrei dovuto
Ho riso, meno di quanto avrei voluto
Ho scavato in me a lungo e profondamente
Mi sono laureata
Ho lavorato
La mia emozione più forte: Sveva
La mia paura più grande: non essere una buona madre

I miei 40 anni sono

Le parole che avrei voluto sentire
Le parole che ripeto a mia figlia
Le parole che mi dico da sola,
Con fatica ma con voce sempre più ferma:
“Vai bene così come sei.”

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Festa della mamma 2019

Per le centinaia di volte che ogni giorno mi chiedo
se sto sbagliando a dirti quella cosa, a fare quell’altra
se sono un buon esempio
se ti sto trasmettendo fiducia in te stessa
se riesco a farti percepire quanto grande è il mio amore 
se una mia frase o un mio gesto sbagliati creeranno un trauma che ti rovinerà la vita
se riusciremo sempre a dirci “ti voglio bene” con la naturalezza di oggi o se il tempo coprirà di pudore e imbarazzo queste magiche parole

Per tutte queste volte,
mi rassicuro un po’, solo un po’, sentendoti dire convinta che tu,
da grande,
farai di sicuro la “mamma”.
Poi l’autrice di canzoni, la veterinaria, il meccanico, la maestra, etc…
ma sempre la “mamma”.

A volte ti immagino più grande:
una ragazza e poi una giovane donna,
cerco di indovinare come sarai.

“Ciascuno cresce solo se sognato”
E tu sei stata sognata tanto,
lo sei ogni giorno,
e lo sarai sempre, per me.

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Don’t panic

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Un negozio vicino all’uscita del centro commerciale, così è più facile andarsene, se si sente male. 
Sudori freddi, tachicardia, brividi, capogiri: questo è “sentirsi male”. Una sintesi che trova efficace, quando nella testa si ripete formule magiche calmanti.

Sei adulta
Stai calma
Respira piano
Aspetta e poi passa

Quindi l’obiettivo odierno, la prova per il corpo e la mente di L., è entrare nel negozio di un affollato centro commerciale e fare shopping. O fingere di farlo. L’importante è restare in quella trappola per un tempo medio, senza scappare. Però, almeno che sia un negozio vicino alla via di fuga.

Parcheggia, la conta dei passi fino all’ingresso, 1, 2, 3, 4, 5, oddio quanti sono, 6, 7, 8… arrivata. Si comincia.
È andata bene, questa volta.

L. è contenta ma non sollevata. Non si sente mai al sicuro, sa che può succedere tutto da un momento all’altro, in qualsiasi posto, senza cause apparenti.

E allora il corpo si sfalda, la carne si scioglie, le ossa si frantumano. Come la cera di una candela che cola, goccia a goccia, come la lava di un vulcano che esce dal cratere e si spande sui fianchi della montagna. Il sé scivola da ogni parte, si divide in migliaia di rigagnoli che si allontanano dal centro. Con fatica L. cerca di rabboccare, di contenere la fuoriuscita, ma, appena chiusa una falla, se ne apre un’altra. Squarci nella mente che si trasferiscono nel corpo. E anche la realtà attorno non è più solida, non esiste posto che sia al sicuro dal dissolvimento, dalla liquefazione, dall’evaporazione.

Tutto è investito da una coltre di precarietà e inconsistenza. Incubi che tornano dal passato, da cassetti polverosi dove avrebbero dovuto restare per sempre. Il futuro buio, senza speranza, pieno di paura e angoscia.
La solitudine come unica compagna di vita, uno strato trasparente eppure solidissimo che separa L. dal resto del mondo. Così si protegge, pensa. Dalle emozioni troppo intense, dal batticuore, da ogni situazione che può coinvolgerla troppo. Ma, in cambio, ottiene solo tristezza. E una spiacevole sensazione di assistere alla vita che passa veloce.
Gli anni di Università sono un grumo nebuloso denso di ansia, scuse per escludersi da tutto, occasioni perse che non torneranno. “Ero davvero io?”, si chiede L. “Chi ha vissuto la mia vita mentre ero impegnata a scansarla?”

L. è così stanca. Quanti anni sono che combatte con queste oscurità? Da quanto non è più serena? Non stare bene con se stessi è la peggiore delle condanne, perché non puoi scappare. Mai.

Lo sfinimento di passare al setaccio ogni gesto compiuto o subìto, ogni parola, detta o ascoltata, ogni sfumatura della giornata per capire cosa l’ha fatta agitare. Cos’ha provocato l’ansia. Secondi minuti ore giorni trascorsi così, richiusa su se stessa come una crisalide incapace di diventare farfalla, il bozzolo, una prigione eterna.
E gli alibi, i cambi di programma, gli spostamenti, la veloce fantasia: tutti metodi per evitare situazioni stressanti, che al solo pensiero generano ansia. Non un ottimo metodo per mantenere le amicizie. Da fuori appare incostante volubile e inaffidabile; invece è solo l’enorme paura dentro che non sa come esprimere. Se ne vergogna. Perché è un chiaro segno di imperfezione, di debolezza. Perché la marchia come diversa, e mai sarà come gli altri. Ma non nel senso voluto, una specialità splendente, da ammirare; no, una specialità ben più opaca, senza fascino, terra e fango.

E quando, dopo molti anni e terapeuti diversi, ancora si sente sfiorare dall’abisso, quanto sale la vergogna. Quanto risuona prepotente l’inadeguatezza. Torna la domanda perenne: avrà mai uno sguardo di tenerezza verso di sé? O sarà sempre la sua più spietata giudice e carceriera?

 

 

Marzo o di quel che verrà

Marzo di pioggia e di neve.
Marzo che promette la primavera ma non la mantiene.
Marzo tra passato e futuro. Mese di passaggio dal buio alla luce, dalla scorza ai primi svelamenti.
Marzo preludio di un’estate che verrà e di un inverno che si chiude. E tu, povera cara, devi fare i conti con le aspettative riposte come maglioni nei cassetti, ben piegate, lì che aspettano solo te per uscire.
Ma le lasci ad attendere, un po’ di polvere si posa e ti scordi il perché volevi, cosa volevi.
Smarrisci la strada del senso, sminuisci gli obiettivi e i desideri, ti dici “in fondo non era così importante”.
E passano i mesi e marzo torna puntuale ogni anno. A ricordarti che una volta di più non hai aperto il cassetto e tolto i maglioni. Sono rimasti lì, come il tuo cuore, senza un vero motivo. Ma il tempo è passato, il tuo tempo.
Annaspi per cercare aria, profumi, certezze e manciate di “cambierò”.
Funziona? Per un attimo sembra di sì, ma poi torni giù, sott’acqua. Tutto si ottunde, si annebbiano vista olfatto udito.
Galleggi o stai andando a fondo, vincerà il cielo oppure il fondale, così scuro eppure pacifico, ti attrarrà senza scampo?
Intanto stai lì, avvolta dalle paure e abitudini come da una coperta lisa ma familiare. È pesante e ti tira giù. Se vuoi salvarti, devi lasciarla andare.

Quanto vorresti non essere così attenta a ciò che appare, ai particolari che sfuggono ai più, ai dettagli. Sempre, implacabile. Sarebbe bello accarezzare le cose e le persone con leggerezza, come lo zucchero a velo che cade sulla torta. Una spolverata e via.

Abbandonare il fuori per trovare il dentro, lasciar andare.

Forse questo marzo è quello buono.

Dalla Sicilia mi porto

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Dalla Sicilia mi porto le contraddizioni apparenti
Dalla Sicilia mi porto la luce
Dalla Sicilia mi porto il vento
Dalla Sicilia mi porto il caso

 

Dalla Sicilia mi porto la finestra spalancata sulla strada, ma solo la sera, quando il caldo dà tregua e le persiane in legno si appoggiano ai muri. Mentre passo davanti a quel rettangolo schiarito dalla luce artificiale, abbasso istintivamente gli occhi: pudore, retaggi di un’educazione borghese. Temo di infrangere qualche rito domestico, sacro e antico. Contrappunto del mio riguardo, la fissità sfacciata con cui, da dentro, la matrona di turno mi osserva. Non vuole girare lo sguardo, non è imbarazzata e pianta i suoi occhi di sfida a chi le passa davanti.

Dalla Sicilia mi porto la parsimonia di chiacchiere. Nessuna parola vada sprecata. Vocali apertissime, “erre” raddoppiate: una lingua sensuale e strascicata, calda come il sole che secca l’isola. E gesti eccessivi a esegesi del poco detto.

Dalla Sicilia mi porto il suo essere isola, fieramente. Indipendente per orgoglio, dove la paura dell’essere lontani da tutto è diventata sfrontatezza di saper esistere in ogni caso. Il destino nelle mani dei venti e dei mari: ma, in fondo, che importa? Non è rassegnazione, è non opporsi. Nulla si può contro di loro, meglio farseli amici e assecondarne le bizze.

Dalla Sicilia mi porto la vita come un lancio di dadi. Alea. Qualsiasi numero esca, andrà bene. Un modo di tirare avanti si trova sempre; inutile affaticarsi per mettere ordine, incasellare, dare un senso. Il caso sceglierà per noi, che non siamo niente. Non decidiamo niente.

Dalla Sicilia mi porto luce sabbia polvere vento.
Dalla Sicilia mi porto odore di pesce profumo d’agrumi salsedine nei capelli.

Ma tutto quello che mi sono portata resterà? Sento che già qualcosa è scivolato via come sabbia tra le dita.

L’amore di sé viene prima

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Il dolore dell’autrice investe il lettore a ogni pagina, ogni riga di questo libro.

La scelta delle parole, lo stile scarno e diretto, l’assenza di edulcorazioni e abbellimenti a posteriori della realtà: tutto punta all’essenzialità.
Teresa Ciabatti sembra voler accentuare solo i lati negativi, ambigui, oscuri; non si concede perdono o clemenza, è lucida e spietata.

Non si dà pace, non trova requie: scava nel passato suo e delle sua famiglia, indaga, ricostruisce, immagina. Cerca una colpa, un peccato originario, qualcosa o qualcuno a cui dare la responsabilità della sua infelicità cronica.
Teresa ha bisogno di sentirsi migliore di chi le ha fatto del male in passato, per legittimare la sua sofferenza presente. Si insinua in lei però il dubbio: davvero le cose sono andate così? O le ha distorte per farle aderire ai suoi ricordi?

“Chi è migliore? Colui che sopravvive al dolore, e io lo sono, io sono qui, sopravvissuta al buio del passato (era così buio?), al gorgo di un’infanzia infelice (ma poi: era così infelice? Sii onesta, Teresa Ciabatti…). Io sono una sopravvissuta, e voi no.”

D’altra parte: importa davvero com’è la realtà? Siamo il risultato della nostra percezione del mondo, non del mondo in sé. Viviamo esperienze, non oggetti. Non conta come sono accadute le cose, ma solo come hanno inciso su di noi, in che modo le abbiamo assorbite.
Teresa si descrive così: “Non so prendermi cura di nessuno, ho iniziali slanci di sentimento che subito muoiono lasciando le persone spiazzate: che ti ho fatto?”

Ha paura delle relazioni, dell’impegno, della continuità. Paura della serenità. Quella che può dare un rapporto equilibrato con se stessi e con gli altri. E allora meglio fuggire, andarsene prima di essere ferita, prevenire l’abbandono.
Come quello di sua madre, che per un anno intero scomparve, ibernata in un sonno indotto. La bella addormentata in carne e ossa, solo che non era una fiaba.

Fu per decisione del padre, il Primario Lorenzo Ciabatti, che Teresa – e suo fratello gemello Gianni – furono privati della madre per 12 mesi; doveva curarsi dalla depressione, era la diagnosi indiscutibile di quel padre divinità, monarca assoluto del piccolo mondo di Orbetello. Osannato, adulato, temuto, servito: quest’uomo chi era davvero?

Teresa se lo chiede da adulta: troppi fantasmi le impediscono di vivere nel qui e ora.
Il Prof. Ciabatti era un massone, implicato in affari poco o per nulla leciti, avaro di denaro e amore, manipolatore, burattinaio che giocava con le vite degli altri, anche dei più stretti famigliari. Incapace di slanci affettuosi, preoccupato solo di sé e della propria reputazione. Ipocrita. Malvagio. Bugiardo. Traditore.

Eppure lei, Teresa, era la più amata. O almeno così si è sentita per una parte della sua infanzia. La prediletta di un padre speciale, che le concedeva tutto e la viziava, diventa una ragazza insofferente, nevrotica, instabile, con un rapporto distorto col cibo.
Cos’è successo? In quale momento Teresa si è incrinata?

Il confronto tra il mondo esterno e quello chiuso e artefatto della villa al mare, o dell’ospedale dove regna il padre, porta Teresa a ridimensionare l’onnipotenza, il suo essere unica e destinata a un fulgido futuro di soli successi. Incontra i primi fallimenti e i primi desideri non esauriti, avverte lo scollamento tra la realtà e l’immaginazione, sente la delusione di scoprire lei e il padre “normali”. Come sopravvivere senza andare in pezzi?

Teresa fa quello che può, si protegge, indossa una corazza che la tenga distante dall’abisso. Anche da adulta, con la figlia piccola ha timore, come se toccandola potesse romperla, rovinarla. Crede di non sapersi prendere cura, non è capace, non vuole, non se lo merita.
Teresa manda in frantumi tutto ciò che tocca, persone e cose, meglio starle alla larga. Teresa è ancora la bambina svenuta nella piscina vuota della villa al mare; non è mai cresciuta. O forse sì, ma è solo un brutto sogno.

Come si può amare qualcun altro se non si ama se stessi?

La ruota

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La ruota.

Una delle tante evidenze che la vita sbatteva in faccia a Clara per ricordarle tutta la sua inadeguatezza.
Provava amore e odio verso le ragazzine che riuscivano a farla con estrema facilità.

Rincorsa, salto e… oplà, parabola perfetta.

Invece Clara era maldestra, completamente negata per ogni tipo di esercizio fisico più complesso del mettere un piede davanti all’altro.

La s-coordinazione impersonificata.
La ruota in spiaggia, poi.
Quella aveva il plus. Richiedeva un’estrema confidenza con il proprio corpo e un controllo di muscoli che ignorava esistessero.

Il mare era il luogo che amplificava al massimo il disagio di Clara verso il corpo. Non sapeva cosa farne, dove metterlo, come coprirlo. Si sentiva goffa quando si doveva alzare dal lettino, un anatroccolo dalla crescita bloccata, che non sarebbe mai diventato cigno. Figuriamoci cimentarsi in un esercizio fisico e di stile (per non sembrare una ciambella rotolante) come la ruota. C’erano invece quelle sue coetanee che a 10 anni sembravano avere già la precisa percezione di ogni centimetro di pelle e muscoli.

Rincorsa, salto, piroetta e voilà: esecuzione perfetta.

E il sofferto rapporto con la salsedine e il vento? Capelli crespi imprigionati in lacci e mollette nel tentativo di non averli gonfi come un carciofo, dopo il bagno e l’asciugatura “en plein air”. Ovviamente, nessuna precauzione funzionava e i ricciolini secchi spuntavano da ogni lato della testa, dando un’idea di estremo disordine e sciatteria.

Come le ciabatte, di cui non azzeccava mai il modello. Il suo problema era la totale assenza di tempismo. Trascorreva l’estate in attenta osservazione: alla fine della stagione, comprava le infradito. Solo che l’anno dopo andavano di moda gli zoccoli. Allora comprava gli zoccoli per l’anno successivo. E invece… boom di ciabattine fiorite. E così via.

– Ciao, sono Emma, vuoi giocare con me?
– Ciao, io sono Clara. Va bene. A cosa giochiamo?
– A me piace fare la ruota. Da 3 anni vado a ginnastica artistica e sono molto brava. E tu? La sai fare?
– No.
– Ti insegno io, se vuoi.
– Ok, proviamo.

Dopo un intero pomeriggio di tentativi, anche a Emma fu chiaro che Clara non era adatta per acrobazie sulla spiaggia. Era quasi più sconsolata di lei, faceva tenerezza. Aveva creduto davvero di poterla aiutare, cambiare: come mai non riusciva a fare una cosa che per lei era semplicissima, naturale come respirare? Non sapeva che la fedeltà all’immagine di goffa e maldestra bambina che Clara si era appiccicata addosso avrebbe vinto su tutto. A dieci anni come a venti, trenta, quaranta.

Siamo come gli altri ci vedono. Questo il credo inattaccabile su cui Clara aveva basato la sua vita. Diventare se stessi è un’opzione che non alberga in chi non si vuole abbastanza bene.