Tempo: le 16.00 di un pomeriggio di inizio febbraio.
Interno: un appartamento di un condominio in centro città.
Esterno: persone che camminano, auto, qualche ombrello perché non si sa mai che possa piovere.
Sono stata invitata ad un tè per festeggiare il compleanno di un’amica conosciuta al liceo, ormai una vita fa.
Eccoci qui: siamo 9 giovani donne in un salotto, alcune delle quali mai viste prima. Ma scorre sotterranea la consapevolezza di appartenere a un medesimo milieu culturale, un codice che si esplicita nell’abbigliamento
sembriamo esserci accordate: tutte con jeans scuri o pantaloni neri skinny, pullover morbidi tinta unita grigio beige nero possibilmente cashemere, gioielli preziosi ma non vistosi
e nell’atteggiamento
voce bassa, gesti calmi e rassicuranti di chi sa come ci si comporta in società, sedersi con schiena dritta e gomiti aderenti al busto, evitare risate troppo acute o prolungate
Tra di noi, espressione della borghesia provinciale, con solide – in senso finanziario più che altro – famiglie alle spalle, laureate, fidanzate/conviventi/sposate con uomini simili per provenienza e stile, le ricorrenze ormai si affrontano così. Con moderato entusiasmo. Nell’anno dello scavalco che segna la prossimità più ai 40 che ai 30 i compleanni si festeggiano in modo sobrio. MAI SOPRA LE RIGHE.
Ci siamo adeguate al clima di una città sospettosa verso chi e cosa non si conforma ai requisiti minimi richiesti a un buon borghese. Sogni di vite spericolate o percorsi di strade tortuose, non esattamente nei desideri dei nostri genitori, sono stati abbandonati per una più ragionevole vita convenzionale. In tempi di crisi meglio aggrapparsi alle tradizioni, si sa.
Il pomeriggio incede veloce: conversiamo di arte, cultura, progetti, figli per chi ne ha e per chi ne vorrebbe ma anche no, cucina vegana, moda, politica… dopo due ore così, tutte iniziamo a congedarci. Si sta avvicinando la sera e ognuna va verso i propri impegni.
In realtà credo che ci manchi l’aria. Troppi pensieri che non possono essere detti, desideri cancellati in nome della razionalità, nostalgia di ciò che volevamo diventare e avremmo potuto essere, consapevolezza nei nostri sguardi riflessi. Troppo di tutto.
E così ci infiliamo nei confortevoli cappotti bon ton o nei piumini pseudotecnici di griffes alla moda, indossiamo sciarpe guanti cappelli, ci baciamo sulle guance raccontandoci quanto ci abbia fatto piacere conoscerci o rivederci, ci diamo appuntamento ad una prossima occasione che sappiamo bene tutte non arriverà mai. Ci riappropriamo in fretta di un’apparenza che ci rassicura e ci permette di stare al mondo, prendiamo un bel respiro, apriamo la porta e usciamo. Ascensore, portone d’ingresso, strada. Un ultimo saluto e ognuna in direzioni diverse, anche se così simili. In fondo è facile: basta continuare a respirare.
Questo racconto breve è stato pubblicato dagli Alieni metropolitani: http://www.raccontopostmoderno.com/2015/04/basta-continuare-a-respirare/