Lucia Berlin ha la rara capacità di scrivere della realtà, anche banale, rendendola magnetica.

Nei 43 brani che compongono La donna che scriveva racconti, maldestra traduzione dell’inglese A Manual for Cleaning Women, incontriamo più o meno gli stessi personaggi ma visti da tante angolature diverse e con impercettibili variazioni.

Quasi sempre una madre alcolizzata, e poi a rotazione un nonno violento e pedofilo, un padre ingegnere minerario, una sorella ritrovata emotivamente solo quando sta per morire di cancro. Storie puntellate di uomini spesso violenti, tossicomani e tormentati, e di mille mestieri: donna delle pulizie, segretaria, centralinista, infermiera, insegnante.

Con la lievità propria dei grandi scrittori, Berlin tocca gli aspetti più crudi e oscuri delle nostre vite e ce li restituisce sotto forma di racconti lineari, depurati dalle passioni, asciutti eppure acutamente penetranti.

Una storia di vittime e di vinti, in cui l’obiettivo è farsi meno male di quanto già ci si è fatti, dove non c’è redenzione o lieto fine, ma solo lo scorrere della vita e dei suoi eventi.

Nessuna morale, nessuna lezione: siamo la somma di quello che ci è accaduto e alla fine il nostro margine di libera azione è limitato.

Non ci sono voglia di rivalsa, rabbia, rancore, rimpianti: Berlin riesce a farci credere che possiamo solo farci trasportare dalle onde dell’esistenza senza opporre molta resistenza.

Eppure le vicende dei personaggi raccontati sono intrise di passione e di dolore, di autodistruzione profonda: ferite aperte che non si rimargineranno mai, occasioni perse, scelte sbagliate.

La sensazione che possiamo davvero poco di fronte ai fatti della vita ci accompagna durante la lettura di tutto il libro. E forse il senso è racchiuso tutto qui, nelle pagine dell’ultimo racconto, intitolato Ritorno a casa:

“…Cos’altro mi sono persa? Quante volte nella vita sono stata, per così idre, sul portico dietro casa invece che su quello davanti? Cosa mi è stato detto che non ho sentito? Quale amore potrei non aver percepito? Queste domande sono senza senso. L’unico motivo per cui ho vissuto tanto a lungo è che ho lasciato andare il passato. Ho chiuso la porta in faccia al dolore, al pentimento, al rimorso. Se li lascio entrare, se apro anche solo una piccolissima fessura in un attimo di auto indulgenza, bum, ecco la porta spalancarsi, ed entrare bufere di sofferenza che mi devastano il cuore e mi oscurano gli occhi di vergogna e rompono tazze e bottiglie buttano a terra barattoli frantumano i vetri delle finestre e io inciampo grondante sangue sullo zucchero versato e i vetri rotti e rimango terrorizzata senza fiato finché tremando e con un ultimo singhiozzo non richiudo la pesante porta. Raccolgo i cocci per l’ennesima volta.”

Vince chi molla – Niccolò Fabi

Recensione apparsa sul numero 175 di Cultura Commestibile https://issuu.com/culturacommestibile/docs/rivista175

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