The Danish Girl non è un film sull’amore, ma sul coraggio.

Einar, pittore paesaggista discretamente noto, è sposato da qualche anno con Gerda, anche lei pittrice, ma di ritratti. La loro unione nasce e cresce in un ambiente abitato da artisti, nella Danimarca di inizio Novecento, tra mostre, vernici, feste. Einar, più famoso della moglie, non partecipa però quasi mai agli eventi mondani a cui viene invitato, perché gli sembra di “dover recitare se stesso”.

Beh, ma dove sta il coraggio?
Si trova in Einar, quando a poco a poco lascia spazio a Lili, la donna che vive in lui ma che ha sempre rinnegato, e le permette di esistere. O in Gerda, che non lascia mai solo il marito nel suo percorso di consapevolezza, lottando con lui e per lui, contro un mondo che non li capisce ma li giudica.
Il coraggio del medico tedesco che ė disposto a tentare per la prima volta al mondo un’operazione molto rischiosa, o il coraggio di Hans, amico d’infanzia di Einar che, ritrovandolo molti anni dopo, non si fa spaventare da ciò che vede.
Il coraggio insomma di agire ascoltando sempre il cuore, anche se fa paura, anche se si viene presi per pazzi, anche se c’è in gioco la vita, anche se il rischio è enorme.

Diventare ciò che si è, ovvero smettere di raccontarsi bugie, eliminare gli alibi: impresa complicatissima, ma solo chi vi riesce può dire di aver vissuto davvero. Ed Einar lo sa bene, se mette sopra tutto curarsi da “quella malattia che gli ha dato un corpo sbagliato”, il corpo di un uomo.

Un film che tratta un argomento come la transessualità poteva essere affrontato con un uso/abuso di corpi e di scene di nudo, mentre il regista Tom Hooper rifiuta un approccio pruriginoso o scabroso e mantiene la cinepresa lontana dal buio delle camere da letto.
E sceglie la via migliore, per ribadire una volta di più che il sesso non è una questione biologica, ma un affare sentimentale, di cuore e cervello. Perché puoi nascere in un corpo maschile (o femminile), ma non significa che tu, dentro, ti senta un uomo (o una donna).

Gerda vede Lili con il cuore, prima che con la mente, e la dipinge. E così la mostra anche a Einar, che l’aveva dimenticata: serve un ri-conoscimento esteriore per trovare la via interiore verso se stessi.

Come ci ha insegnato Almodòvar quando, in Tutto su mia madre, fa dire ad Agrado: “una più è autentica quanto più somiglia all’idea che ha sognato di se stessa”.