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Un tuffo nella Café Society di Woody

Café Society

Un film leggero, nel senso nobile del termine. Una commedia che riesce a travestire anche gli episodi più violenti con un velo ironico, come appartenenti al normale corso della vita.

Adorabile il protagonista Bobby Dorfmann (Jesse Eisenberg), ennesimo alter ego del regista Woody Allen, dotato di acuta ironia, sagacia nelle osservazioni e un eloquio piacevolmente fluido.
Ammaliato dall’apparenza di Hollywood, Bobby si trasferisce da New York in California, dove suo zio Phil è un potente agente dei divi. Dopo qualche difficoltà, il nostro inizia a lavorare per lui e conosce Veronica detta Vonnie, giovane donna impiegata nell’azienda, che gli fa da guida turistica nei fine settimana. Manco a dirlo, Bobby se ne innamora e riesce per un periodo a conquistarla, ma le cose non vanno come previsto: torna quindi a New York, dove apre un night club insieme con il fratello maggiore Ben, gangster della mala.

In breve tempo il locale diventa il più famoso tra la “café society”, quel mix di modelle, politici, business men, artisti, insomma, della gente che conta.
Tra colpi di scena, situazioni tragicomiche, frasi memorabili del tipo “vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, e prima o poi ci azzeccherai”, i personaggi vengono delineati con pochi caratteristici tratti. La storia prosegue piacevole e rapida, tenuta viva dai carburanti presenti in ogni narrazione delle umane vicende: tentativi di riscatto sociale, amori tormentati e tradimenti, affari loschi, delusioni e vendette, miserie, fortuna, destino e talento.

Capitolo attrici: Bobby è diviso tra due donne bellissime, che si chiamano entrambe Veronica, una interpretata da Kristen Stewart e l’altra da Blake Lively. Avvolte da leggeri abiti di chiffon o di seta, con boa di piume e diademi sul capo, tra le due la Stewart appare più impacciata a vestire i panni di una signora dell’alta società degli anni ‘30. Si capisce che non sa bene dove mettere le lunghe braccia scoperte, e rimpiange probabilmente gli shorts e le canottiere striminzite di Into the Wild: è una ragazza troppo contemporanea.
Blake Lively invece sembra nata per indossare i lunghi vestiti fruscianti: anche lei alta e affusolata come la collega, si muove con estrema disinvoltura senza mai perdere l’eleganza. Perfetta.

Tutto è finzione: Ave, Cesare!

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Una trama che rasenta l’inesistenza non basta a stroncare quest’ultimo film dei fratelli Coen.

Nonostante limiti evidenti, la visione è piacevole e i 106 minuti di proiezione scorrono abbastanza fluidi; questo grazie all’abilità dei registi, che riescono con il mestiere a supplire i vuoti di dialoghi e azioni.

Sia nel timbro sia nel linguaggio pomposo e aulico, la voce narrante fuori campo fa il verso a quelle dei film degli anni ’40 e ’50, periodo d’ambientazione del film. Le vicende di Mannix (James Brolin), manager di uno degli Studios di Hollywood, s’intrecciano con quelle dei suoi attori e della guerra fredda in versione parodia.

Traspaiono da ogni frame l’amore e la conoscenza della storia del cinema americano, shakerati con una buona dose d’ironia che evita lo stucchevole effetto nostalgia. La satira dei Coen nei confronti del sistema Hollywood, seppure lucida, non appare mai spietata: in realtà i registi provano affetto per quel mondo, e si vede.

L’attività dello Studio di Mannix comprende tutti i principali filoni cinematografici dell’epoca: musical, film acquatici, storici e western. Davanti alla maggior parte delle scene veniamo colti da botte di déjavu, e ricordiamo spezzoni di film intercettati le mattine estive in cui ci annoiavamo a morte oppure in improbabili orari notturni. Ma forse l’amarcord vale solo per le generazioni nate entro gli anni ’80; per i millennials, i riferimenti e le citazioni di Ave, Cesare! potrebbero essere del tutto prive di significato e fuori da ogni orizzonte di senso.

George Clooney, Scarlett Johansonn, Channing Tatum, James Brolin medesimo, interpretano personaggi senza sfaccettature, con una o al massimo due espressioni. Stereotipi e caricature della Hollywood d’oro degli Studios, che gestivano ogni aspetto della vita delle star e ne coprivano spesso vizi e vicende considerate non in linea con la loro immagine.

Un mondo patinato, un po’ pazzo, intriso di retorica, dove anche i cosiddetti congiuratori “comunisti” – sceneggiatori che non si sentono abbastanza pagati e valorizzati dagli Studios – complottano in una villa di design a picco sulla scogliera di Malibù ma non riescono ad esprimere concetti che vadano oltre frasi di Marx imparate a memoria.

Nessun personaggio sembra avere una vita reale, tutti appaiono come perenni attori di un’enorme sceneggiatura globale. Insomma, un film omaggio alla Hollywood che fu, senza particolari pretese, da vedere per rilassarsi e non pensare per un po’.