Seduta sul letto, gambe distese, schiena appoggiata alla testiera.
È così da un po’ di giorni, fatica a mangiare, ha lo sguardo liquido.
Parla poco, piange piano, attorno a lei un’aria densa impregnata di sensi di colpa, biasimo, dolore. Nessuna compassione.

Se sei depressa, un po’ è colpa tua, sei debole, non sai reagire. Questo pensano e spesso dicono quelli che non sanno di cosa parlano. 
Ma è facile sentirsi migliori, se non hai mai lottato con il buio. 
È semplice sentirsi forti, se non hai mai provato la paura più intensa. 
È scontato sentirsi invincibili, se non hai mai dovuto rialzarti da una caduta. 

L. guarda la sua mamma e non sa che pensare. Si sente molto triste, vorrebbe aiutarla ma non sa come. Sente il padre che la rimprovera, le lancia accuse, non la riesce proprio a capire e allora si spazientisce. E la attacca.

La madre non reagisce. Non ci riuscirebbe nemmeno se provasse. È come se la luce che ha dentro si fosse spenta. Le parole le arrivano lontane, sia quelle cattive sia le poche buone.
Fa già così fatica a respirare, ad affrontare un secondo dopo l’altro, senza infrangersi.
Senza rompersi. Tenersi unita, stretta attorno a un filo sottile che la attraversa dall’alto in basso.

Quel giorno esce il film che L. desidera vedere da tanto: ha 6 anni e aspetta emozionata il cartone animato di Natale.
I suoi genitori le hanno promesso che la porteranno, ma la mamma sta male. Non può venire. E non si sa quando riuscirà.

-Vai sola col papà – dice la zia di sua madre. Ma dal tono traspare un ordine, non un suggerimento. La zia è abituata così: decide per tutti, e non si discute. 
La madre di L. lo sa bene, è cresciuta con questa ombra, pronta a giudicare ogni suo passo, a criticare ogni scelta, a distruggere in modo costante e metodico ogni scintilla di iniziativa personale, ogni fiducia in se stessa. 
E anche L. sta crescendo intrappolata da questa cappa che toglie il respiro. Senza che i genitori se ne accorgano e la salvino.

È stabilito: L. andrà al cinema con il padre. Solo loro due.

Nessun adulto le spiega cosa succede, coglie frasi lanciate come pugnali, in una guerra senza vincitori.
Nessuno si china in ginocchio, la guarda negli occhi e le dice: “non è colpa tua se la mamma non sta bene. È malata, ma poi guarirà. E ti ama, sempre. Anche se ora sei spaventata e triste, ricordati che questo momento passerà”. 

Allora L. prova a capire da sola. E capisce che non è così importante da smuovere sua madre dal torpore della depressione; non è così importante da ricevere rassicurazioni dagli altri adulti che la crescono; non è così importante da essere considerata una persona con dei sentimenti. 

Non è abbastanza. 

Queste le parole incise nella sua mente e nel suo cuore. Crescerà con un marchio, convinta di non meritare alcunché. E che, alla fine, niente e nessuno abbiano davvero valore. 

Ora sono passati molti anni e L. è sola, chiusa in casa da oltre un mese. Una situazione anomala, una pandemia, che uccide spietata e obbliga le persone a non avere contatti, per non ammalarsi.

L. è preoccupata, ma in fondo anche contenta. 
Non deve dimostrare niente a nessuno. Non deve superare prove costruite solo nella sua testa per cercare conferme continue. Non deve essere impeccabile. 
Può sbagliare, finalmente, e nessuno la giudicherà. Può lasciar andare, riposarsi da quella tensione che l’accompagna sempre.

L. è triste, ma in fondo è anche sollevata. 
L. si sente sola, ma in fondo sta bene così.
L. vuole tornare alla sua vita normale, ma in fondo non ha fretta.
L. ha più paura di vivere che di morire. 

 

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