Il 15 luglio 1998 vengo dichiarata matura, nell’ultimo anno dell’esame ante Riforma Berlinguer. Cinquantadue su sessanta, non male.
Eppure dentro sono vuota. Le benzodiazepine che ho in corpo fanno il loro effetto: niente attacchi di panico, e niente gioia. Una linea piatta che mi illude di essere ferma. Sì, perché uno dei sintomi più persistenti dell’ansia è la sensazione continua di dondolare, come un burattino penzolante dal filo, mentre le gambe non ci sono. Non le sento, continuo a muovermi per puntarmi e stare dritta, compatta. In piedi da sola. Non riesco.
L’ansia è cresciuta silenziosa con me ogni giorno per deflagrare al termine del quarto anno del liceo. Fino ad allora mi sentivo normale, pensavo di possedere il mondo, di poterlo scartare attraversare dominare modellare. Viaggi, l’università in un’altra città, amici, feste, sarei stata splendente e luminosa. Riconosciuta per quello che ero e che per qualche strano motivo nessuno ancora vedeva: speciale.
E invece. Ho 17 anni, fa caldo, un inizio giugno afoso come solo in pianura padana. Sono in classe e ho un capogiro, chiedo di uscire. Mi siedo per terra in corridoio di fronte al telefono pubblico che funziona con le schede, già insidiato dai primi cellulari.
Poi mi alzo piano, mi è già successo, ora passa. Come nell’ora di ginnastica l’anno scorso, quando all’improvviso ho visto tutto annebbiato. Questa volta però è diverso, sento qualcosa che si spezza, in mezzo al petto. Può un muscolo fare crack? Giurerei che fosse quello il rumore provenire dal mio cuore.
Dovevo capirlo prima, che qualcosa si stava rompendo. Quando a 15 anni si spegneva la luce e mi vedevo da fuori, una ragazza che non conoscevo, ma chi era, chi ero. Tachicardia, vertigine, rientra in te, Giulia, sei tu, non vedi? Le tue mani, il tuo corpo.
O in seconda media, al penultimo banco con la mia amica del cuore – dove sarà ora? L’ho persa, anzi, se n’è andata lei: ha scelto di non chiamarmi più, altra piccola crepa nel cuore. Pensavo di avere finalmente un’amica, dopo le elementari attraversate da estranea. Troppo alta, troppo secchiona, nonostante i miei patetici tentativi di piacere a tutti. O forse a causa loro.
Quel giorno in seconda media una fiamma di terrore mi sale dalla pancia alla testa: sto male, chi sono, cosa faccio ora, oddio muoio. Cinque secondi di eternità, poi mi calmo spostando l’attenzione su altro – è così che ti hanno insegnato a casa, no? Nascondi sotto il tappeto la polvere che non ti fa respirare.
A 8 anni leggo che una donna vive in un polmone d’acciaio: eccomi, sono io. Ora sto bene, ma tra poco mi ammalerò e dovrò essere rinchiusa in una bara che mi tiene in vita. Il viso riflesso dallo specchietto attaccato sul mio sarcofago, altri specchi ai lati per farmi vedere la tv.
Mi manca il fiato, lo sento, l’aria non sale dai polmoni, non esce dal naso. Aiuto, mamma, sto male, ti prego fai qualcosa. Nei suoi occhi vedo la mia paura, la sua paura di una figlia dalla vita segnata, come lei, come sua madre prima. Una maledizione che passa nel cordone ombelicale, filtra dalla placenta.
Ho 5 anni, sono nel mio letto ma non riesco a dormire. Invento una sequenza di parole e gesti e devo ripeterla esattamente e senza errori, altrimenti il buio della stanza mi catturerà e non mi lascerà più andare.
Sono appena nata, ma mia madre non può tenermi sul suo petto. Deve riprendersi dall’operazione, e io sono sotto osservazione. Mi guarda dal vetro e ripete: non ce la farò mai, perché l’ho voluta, come si cresce una bambina?