Una luce violenta come è possibile solo nei torpidi pomeriggi estivi in Sicilia, bagliore così intenso che fa male agli occhi. All’orizzonte colline disegnate da viti e fichi d’india. Un casupola bianca, tutta su un piano, con un patio coperto da tralci a cui stanno appesi grappoli d’uva non ancora maturi. Un tavolo con la superficie a rete, di acciaio dipinto di bianco, accompagnato da sedie uguali per ricamo e colore. Un gatto steso su un muretto di calce fa la siesta accarezzato da un’aria leggera. Tra la casupola e le colline coltivate, una strada polverosa pendente e deserta.
Accovacciata su una sedia del patio, cerco di allenare gli occhi a quel paesaggio così diverso dall’abituale. Ho come la paura di non saper guardare; non voglio che accada, voglio raccogliere ogni cosa nelle rétine e nella memoria. Temo di non venire più in questo scampolo di campagna arroventata in cui il tempo è scandito da ritmi antichi, ormai perduti nel luogo dove vivo.
Lentezza e luce sono le cifre del viaggio nell’isola. Siamo partiti dal porto di Genova sotto un temporale, abbiamo attraversato il mar Tirreno per ventiquattro ore intravedendo i profili verdognoli e montuosi dell’Elba, della Corsica e della Sardegna per attraccare il giorno dopo sotto il sole di Palermo.
Abbiamo pranzato in un ristorante sul mare e ci siamo diretti in automobile verso San Cono, paese di poche anime che riposa sulle colline dell’entroterra siculo.
Ho visto viadotti finire nel nulla mentre mio padre guidava sulla litoranea.
Ora siamo qui, al paese dei bisnonni, ospiti in casa loro. Due persone esili, un po’ curvate dalle fatiche e dall’età, di pochissime parole ma con gli occhi luminosi quando mi vedono finalmente in carne e ossa e non su una pellicola. Mi piacciono, non li sento estranei anche se non li ho mai incontrati prima.
Le giornate seguono una routine abbastanza consolidata: sveglia verso le 9, colazione e passeggiata fino ad arrampicarsi sulla piazza della Chiesa, appollaiata in cima al colle. Sempre tanta luce, intensa, a svelare gli edifici bassi ai lati della visuale dietro alle sedie sparse dove gli anziani trascorrono il tempo. Mi stupisco di questa parata: mi chiedo cosa ci sia di così interessante da vedere in un posto che non appare esattamente movimentato. Eppure scopro che è consuetudine, anche nei paesi vicini, portarsi una seggiola e starsene lì tutto il giorno. E noi, i miei genitori ed io, costituiamo una novità considerevole: arriviamo dal continente, siamo i parenti del professuri, che se n’è andato al nord tanto tempo prima e che torna ogni estate. Non saprei dire se tanta attenzione mi faccia piacere o crei disagio.
Dopo il pranzo, che non finisce mai prima delle 15, ci ritiriamo nella frescura delle nostre stanze da letto. Osservando le righe di luce proiettate dalle persiane accostate ci lasciamo andare a un sonno leggero ma che appare necessario in quel luogo, in quel momento. Sul tardo pomeriggio, quando la temperatura è accettabile e inizia ad alzarsi un po’ di vento, usciamo e visitiamo i paesi vicini.
Tra un abitato e l’altro solo campagna, coltivata o arida. Nulla a che fare che le case del luogo da cui provengo, che si snodano contigue e tutte simili intervallate solo da capannoni e strade, senza verde e senza anima.
In questi giorni ho imparato ad amare la Sicilia di un amore forte ma incostante: isola senza difese dagli invasori ma accogliente con chi migra per sopravvivere, bollente e silenziosa, fuoco che vive sotto la terra pronto ad esplodere dai crateri dell’Etna.
Penso a tutto questo, rannicchiata sulla sedia sotto i tralci di vite il giorno prima della partenza. Penso che appartengo in qualche modo a questa terra sconosciuta fino a poco tempo fa, che nelle mie vene scorrono anche linee di sangue greche, latine, arabe, normanne, spagnole, e chissà quali altre. Penso che la mia esistenza non può esaurirsi in mezzo a villette costruite dai proprietari nei fine settimana, a enormi cubi industriali di lamiera grigia, a strade asfaltate senza più alberi ai margini. Eppure non riuscirei a vivere in pace nemmeno qui: riconosco finalmente il disagio che mi accompagna da sempre e che non mi fa sentire accolta davvero in alcun luogo.
Il sole nel frattempo si è spostato verso ovest e un raggio riesce a infilarsi tra gli intarsi della vite che mi fa da tetto. Eccola di nuovo questa luce iridescente. Porto una mano alla fronte e cerco di ripararmi da una verità troppo intensa.
Questo racconto breve è stato pubblicato su http://www.tatamipost.it/viaggio-sicilia/