Dalla Sicilia mi porto le contraddizioni apparenti
Dalla Sicilia mi porto la luce
Dalla Sicilia mi porto il vento
Dalla Sicilia mi porto il caso

 

Dalla Sicilia mi porto la finestra spalancata sulla strada, ma solo la sera, quando il caldo dà tregua e le persiane in legno si appoggiano ai muri. Mentre passo davanti a quel rettangolo schiarito dalla luce artificiale, abbasso istintivamente gli occhi: pudore, retaggi di un’educazione borghese. Temo di infrangere qualche rito domestico, sacro e antico. Contrappunto del mio riguardo, la fissità sfacciata con cui, da dentro, la matrona di turno mi osserva. Non vuole girare lo sguardo, non è imbarazzata e pianta i suoi occhi di sfida a chi le passa davanti.

Dalla Sicilia mi porto la parsimonia di chiacchiere. Nessuna parola vada sprecata. Vocali apertissime, “erre” raddoppiate: una lingua sensuale e strascicata, calda come il sole che secca l’isola. E gesti eccessivi a esegesi del poco detto.

Dalla Sicilia mi porto il suo essere isola, fieramente. Indipendente per orgoglio, dove la paura dell’essere lontani da tutto è diventata sfrontatezza di saper esistere in ogni caso. Il destino nelle mani dei venti e dei mari: ma, in fondo, che importa? Non è rassegnazione, è non opporsi. Nulla si può contro di loro, meglio farseli amici e assecondarne le bizze.

Dalla Sicilia mi porto la vita come un lancio di dadi. Alea. Qualsiasi numero esca, andrà bene. Un modo di tirare avanti si trova sempre; inutile affaticarsi per mettere ordine, incasellare, dare un senso. Il caso sceglierà per noi, che non siamo niente. Non decidiamo niente.

Dalla Sicilia mi porto luce sabbia polvere vento.
Dalla Sicilia mi porto odore di pesce profumo d’agrumi salsedine nei capelli.

Ma tutto quello che mi sono portata resterà? Sento che già qualcosa è scivolato via come sabbia tra le dita.