Gli Oscar li hanno dati. Ora parliamo di cose serie: i vestiti sul red carpet!

Come per ogni importante evento che preveda passerelle, red carpet e in generale sfilate di celebrità, anche per la notte degli Oscar c’è la curiosità di sapere come si sono agghindate le dame – e magari qualche signore eccentrico. Siamo sincere: l’esperta di moda che alberga in ognuna di noi in realtà non vede l’ora di stroncare gli outfit delle dive, una sorta di risarcimento morale. Non sempre veniamo esaudite però, e spesso dobbiamo riconoscere che le belle e famose sono pure vestite bene, ahimè.

Non potendo mettere a tacere il mio dark side Meryl Streep-Miranda Priestley, ho individuato alcune vittime che giudicherò in modo imparziale (più o meno) collocandole in Paradiso, Purgatorio o all’Inferno.

SÌ                                                                                                                     

Charlize Theron (Jason Merritt/Getty Images)

Charlize Theron: ok, con quel corpo è difficile stare male, ma lei sa sempre valorizzarsi al massimo. Abito Dior, rosso che di più non si può, nonostante le profonde scollature fronte/retro riesce a non risultare volgare o eccessivo. Lo strascico bilancia la mancanza di stoffa nella parte superiore e il preziosissimo collier anni ’20 con lungo pendente floreale è assolutamente perfetto.

Cate Blanchett (Jason Merritt/Getty Images)

Cate Blanchett: un delicatissimo verde acqua, con fiori applicati in rilievo che sembrano ninfee galleggianti, evita l’effetto “principessa delle favole” grazie al taglio perfetto. E alla classe con cui lo porta l’impeccabile Cate. Gioielli Tiffany e clutch in nuance a completare il look.

Julianne Moore (Jason Merritt/Getty Images)

Julianne Moore: in nero Chanel, l’abito è reso particolare dalla scollatura geometrica con ricami in paillettes e dalla gonna svasata in pizzo. Parure orecchini, anello, bracciale di Chopard per completare.

Margot Robbie (VALERIE MACON/AFP/Getty Images)

Margot Robbie: ero indecisa se metterla qui o tra i “ni”. L’abito a scaglie dorate uscito direttamente dagli anni ’80, con tanto di spalline, è una scelta rischiosa, soprattutto per una bionda. Lei però è talmente bella che le si può concedere un bonus, e chiudere un occhio sulla clutch nera con tanto di coda.

NI

Brie Larson (Jason Merritt/Getty Images)

Brie Larson: se vinci l’Oscar, il tuo look rimarrà nella storia. Brie poteva impegnarsi un po’ di più, quindi. Va bene il colore blu elettrico, bene le ruches della gonna, passi anche la cintura gioiello, ma la parte superiore è talmente semplice da risultare anonima. Per non parlare della mezza coda in testa: un’acconciatura da liceale di provincia, più che da diva.

Actress Alicia Vikander arrives on the red carpet for the 88th Oscars on February 28, 2016 in Hollywood, California. AFP PHOTO / VALERIE MACON / AFP / VALERIE MACON (Photo credit should read VALERIE MACON/AFP/Getty Images)

Alicia Vikander: abito Louis Vuitton, dal colore insolito ma che ben si abbina con la carnagione abbronzata dell’attrice. Ricami argentati, come i sandali a stiletto. La lunghezza asimmetrica della gonna e quel drappeggio finale però fanno un po’ tenda della nonna.

Jennifer Garner (Jason Merritt/Getty Images)

Jennifer Gardner: abito impeccabile, un Versace dalla scollatura a cuore, gonna drappeggiata, nero, perfetto passepartout per le serate eleganti. E allora cosa c’è che non va? Niente, è questo il problema: doveva osare un po’ di più. Senza infamia e senza lode.

Jennifer Lawrence (Jason Merritt/Getty Images)

Jennifer Laurence: il pizzo e l’effetto nude mettono in risalto il suo fisico perfetto, ma il corpetto non convince del tutto. Saranno le tre strisce nette in evidenza, che sembrano linee di pennarello nero messe lì non si capisce bene perché.

NO

Olivia Wilde e il marito Jason Sudeikis (Jordan Strauss/Invision/AP)

Olivia Wilde: quelle bretelle copricapezzoli sono già discutibili da sole, ma le mezze alette sulle spalle gridano vendetta. L’abito sembra un grembiule indossato a pelle. Bocciato anche il choker, che fa tanto Brenda di Beverly Hills.

Leonardo DiCaprio e Kate Winslet (Jordan Strauss/Invision/AP)

Kate Winslet: con tutta la simpatia per una che non si sottomette alla dittatura della taglia 40, questo vestito proprio non le dona. Sembra una specie di sacco nero lucido, il tessuto ricorda il latex usato per l’abbigliamento fetish. La linea a sirena è adatta al suo fisico, ma sottolinea troppo le curve creando un antiestetico effetto insaccato.

Heidi

Heidi Klum: la riprova che un corpo statuario non è sufficiente per un buon outfit. Fiori troppo grossi, eccesso di veli, scollatura asimmetrica inspiegabile. Heidi, perché?

Jennifer Jason Leigh (Jordan Strauss/Invision/AP)

Jennifer Jason Leigh: cara, hai sbagliato taglia, colore e modello. Vedi tu.

Le foto sono prese da http://www.ilpost.it/2016/02/29/oscar-2016-foto-red-carpet/

The Danish Girl o sul non mentire

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The Danish Girl non è un film sull’amore, ma sul coraggio.

Einar, pittore paesaggista discretamente noto, è sposato da qualche anno con Gerda, anche lei pittrice, ma di ritratti. La loro unione nasce e cresce in un ambiente abitato da artisti, nella Danimarca di inizio Novecento, tra mostre, vernici, feste. Einar, più famoso della moglie, non partecipa però quasi mai agli eventi mondani a cui viene invitato, perché gli sembra di “dover recitare se stesso”.

Beh, ma dove sta il coraggio?
Si trova in Einar, quando a poco a poco lascia spazio a Lili, la donna che vive in lui ma che ha sempre rinnegato, e le permette di esistere. O in Gerda, che non lascia mai solo il marito nel suo percorso di consapevolezza, lottando con lui e per lui, contro un mondo che non li capisce ma li giudica.
Il coraggio del medico tedesco che ė disposto a tentare per la prima volta al mondo un’operazione molto rischiosa, o il coraggio di Hans, amico d’infanzia di Einar che, ritrovandolo molti anni dopo, non si fa spaventare da ciò che vede.
Il coraggio insomma di agire ascoltando sempre il cuore, anche se fa paura, anche se si viene presi per pazzi, anche se c’è in gioco la vita, anche se il rischio è enorme.

Diventare ciò che si è, ovvero smettere di raccontarsi bugie, eliminare gli alibi: impresa complicatissima, ma solo chi vi riesce può dire di aver vissuto davvero. Ed Einar lo sa bene, se mette sopra tutto curarsi da “quella malattia che gli ha dato un corpo sbagliato”, il corpo di un uomo.

Un film che tratta un argomento come la transessualità poteva essere affrontato con un uso/abuso di corpi e di scene di nudo, mentre il regista Tom Hooper rifiuta un approccio pruriginoso o scabroso e mantiene la cinepresa lontana dal buio delle camere da letto.
E sceglie la via migliore, per ribadire una volta di più che il sesso non è una questione biologica, ma un affare sentimentale, di cuore e cervello. Perché puoi nascere in un corpo maschile (o femminile), ma non significa che tu, dentro, ti senta un uomo (o una donna).

Gerda vede Lili con il cuore, prima che con la mente, e la dipinge. E così la mostra anche a Einar, che l’aveva dimenticata: serve un ri-conoscimento esteriore per trovare la via interiore verso se stessi.

Come ci ha insegnato Almodòvar quando, in Tutto su mia madre, fa dire ad Agrado: “una più è autentica quanto più somiglia all’idea che ha sognato di se stessa”.

La spremuta

“Sveva, perché non bevi la spremuta d’arancia che ti ho preparato? Al nido la prendi sempre”

“Perché al nido è buona, la tua è schifA”

Soddisfazioni dell’essere madre.

The Hateful Eight: tre ore e non sentirle

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“I detestabili otto”: in effetti, i protagonisti dell’ultimo film di Tarantino non sono proprio persone simpatiche: ognuno possiede una buona dose di violenza, avidità, cattiveria, anche se alla fine li ami tutti lo stesso, a dispetto del titolo.

Ok, confesso subito di essere di parte perché amo Quentin Tarantino e il suo modo di raccontare storie, ma davvero le quasi tre ore di proiezione sono passate senza che me ne accorgessi. Volate. E non è proprio scontato, visto che il film è ambientato praticamente tutto in un emporio sperduto sulle montagne del Wyoming durante una bufera di neve.

Siamo nel periodo successivo alla guerra di secessione americana, e i protagonisti che l’hanno animata sono ancora vivi, così come i loro rancori reciproci.  Gli Stati Uniti cercano di darsi una struttura democratica unitaria, ma è difficile costruire una grande nazione da zero. Diciamo che regna un simpatico caos, nonostante i mandati che ognuno, su richiesta, esibisce a garanzia della legalità del proprio ruolo: sceriffi, cacciatori di taglie, boia.

Lo stratagemma narrativo peculiare del thriller di rinchiudere un gruppo di persone, tutte sospette e tutte possibili bugiarde, in uno spazio isolato per un tempo abbastanza lungo non è certo inedito -a me per esempio ha ricordato subito “I dieci piccoli indiani” di René Clair, ma vi sono davvero molti altri film a cui far appello- tuttavia, Tarantino riesce a creare ugualmente attenzione e coinvolgimento. Alcune scene splatter, i personaggi spesso surreali o molto caratterizzati, meccanismi propri del genere western visti innumerevoli volte, non tolgono veridicità o suspense alla trama. Non pensi di essere davanti a un film di fantascienza o in costume; ti cali nel tempo della presidenza di Abramo Lincoln – spesso citato dai protagonisti – e dai credito alla storia che ti stanno raccontando.

I protagonisti, dicevo.  Le loro vite si incrociano per caso, eppure ognuno scopre di avere dei legami con qualcuno degli altri; alla fine in pratica si conoscono tutti, per fama o direttamente. Spesso mossi da voglia di vendetta, sospettosi e guardinghi, non si fanno scrupoli a sparare. E sono a loro modo simpatici: merito dei dialoghi che recitano, spesso sarcastici, sicuramente un po’ surreali messi in bocca a personaggi decisamente grezzi. Ma è anche per questo che adoro Tarantino: la capacità di sorprenderti e di spiazzarti nelle trame che appaiono scontate (c’è chi può aver pensato: un altro Western? No, grazie), la cura nei dettagli, l’eccesso costruito di alcune scene.

Quentin, marry me!

Il cibo ti fa brutta

Potere. Potere e controllo. Onnipotenza, insomma.
La sensazione data dal calo veloce dei chili sulla bilancia. La percezione potente del legame causa-effetto tra la conta dei chicchi di riso e la perdita di peso. Rituale rassicurante, certezza del risultato, ebbrezza del dominio sul corpo.

Un corpo odiato. Un corpo da annullare.

Non è mai servito ad alcunché. Ingombro, peso, fatica.
Incapace di fare sport, maldestro nei movimenti, goffo, preso in giro.
Sedersi e sentire la carne molle dell’addome che si arrotola e sporge in fuori, ostentando la sua bruttezza con fastidiosa arroganza.

Tutti gli sguardi cadranno su questa pancia che non sento parte di me, che non tollero. Lo so, guarderanno solo qui.

“Qual è il tuo più grande desiderio?”
Scuoiarmi.

Spogliarmi della pelle, della carne, di tutto. Togliermi questo inutile fardello che mi porto dietro. Essere trasparente, leggera, inconsistente. Puro spirito.

Fuggire gli specchi, l’immagine che mi rimandano: un ammasso di carne sgraziato, senza proporzioni, sgradevole.

Analizzo ogni singolo alimento che dovrà entrare nel mio corpo, dettaglio precisamente macronutrienti, calorie, combinazioni.

In principio tento anche di seguire criteri “sani”, alterno proteine, carboidrati, fibre, ma continuo a sentirmi ingombrante e la bilancia non dice quello che vorrei. Così comincio a togliere un po’ di tutto: le foglie di insalata, gli spicchi degli agrumi, verifico, controllo, peso, scarto.
Troppo, ancora troppo.

Bevo molta acqua, prendo lassativi, voglio depurarmi. Ogni volta che ingoio qualcosa di solido mi sento sporca, piena, mi vergogno. Seguo il percorso del bolo: bocca, gola, esofago, stomaco; percepisco il passare di ogni singola parte di cibo, granelli di odio che entrano in me. Non li voglio. Solo spirito, la carne è male.

Perdo peso sempre più velocemente, finalmente sento di poter controllare il mio corpo prima ribelle. Ora è docile, sta al suo posto, buono, ogni giorno più leggero e meno prepotente. Non pretende più di essere il protagonista: adesso le persone quando mi guardano possono vedere me e non lui.

Nella mia giornata mangio 3 pezzi di mela da 10 grammi ciascuno, 10 fili di carota tagliati sottili, un albume cotto e bevo acqua. Sono felice, anche se mi stanco più facilmente di prima. Mi chiedono come faccia a stare in piedi: ma io sto bene, non vedete? Studio, vado in palestra, sto bene.

Mia madre non compra più le riviste perché dice che ci sono ragazze troppo magre e mi influenzano. Come se mi importasse di quelle là. La questione è solo tra me e il mio corpo.

I miei genitori sono preoccupati, dicono che se continuo così potrei morire, pensano di ricoverarmi. Non sono così magra, tra l’altro. Quando mi guardo allo specchio vedo ancora curve odiose. Loro dicono che non ci sono, ma io so che mentono. Sono invidiosi di me, di come riesco a controllare tutto. E allora provano a spaventarmi, a dirmi che sono malata.

E poi, cosa vogliono? Quando ero grassa non mi chiedevano se stavo bene, se qualcosa non andava. E io volevo solo essere vista. Ora che peso poco più di una bambina invece, e dovrei essere trasparente, mi stanno col fiato sul collo. Perché non hanno continuato a ignorarmi?

Sveva e il sole

“Hai visto che c’è il sole oggi?”

“Sì, Sveva”

“L’ho chiamato io. Ho fatto tu tuuu (suono del telefono) e lui è venito (non è un refuso)”

 

Ho una figlia molto fiduciosa nelle sue possibilità

 

La grande scommessa. Film eticamente complicato

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La grande scommessa ha questo merito: rendere minimamente comprensibile il mondo della finanza a quelli come me, che appena sentono anche solo da lontano parlare di cifre e operazioni matematiche più complesse di somma/sottrazione entrano in uno stato catatonico grazie all’immediata disconnessione di tutte le sinapsi neuronali.

Non si può però dire che il film invogli a diventare esperti di Borsa e affini: i personaggi che girano attorno al vortice di banche, fondi, assicurazioni, mutui, rating, milioni anzi miliardi di dollari sono accomunati dall’essere tutti più o meno diversamente nevrotici, tronfiamente arroganti o perfidamente amorali. È evidente il messaggio: la finanza fa male, e molto.

E così incontriamo un ex trader che ha abbandonato Wall Street schifato dal marcio che vi ha visto dentro e ora vive nella campagna del Colorado, ma è disposto ad aiutare due brillanti e intraprendenti ragazzi che creano il loro fondo finanziario partendo da un garage (ah, il garage! Vi ricorda nessuno?) e nell’arco di tre anni passano da 110.000 a 3 milioni di dollari di patrimonio. Brad Pitt sempre tanto bello, in versione barbuta e stropicciata, interpreta un personaggio che ricorda moltissimo il Robert Redford “vero” – quello che si è inventato il Sundance Film Festival, per dire – veste in fustagno e camicie a quadri, mangia e coltiva bio e ha tanto a cuore le cause umanitarie. Ingoia continuamente granuli che suppongo omeopatici, fa l’idrocolon e depura la terra del suo orto con un composto a base di urina.

C’è poi Ryan Gosling nei panni del dipendente di una grande banca, giovanotto elegante e tampinato da un assistente ammaestrato, che fiuta la grande bolla immobiliare con due anni di anticipo e non si fa troppi scrupoli nel giocare la sua partita su più campi diversi.

Ecco Christian Bale dare vita a un ex medico con occhio di vetro, una specie di genio matematico che lavora immerso in complicati calcoli finanziari col sottofondo di musica hard rock sparata al massimo volume, scalzo e in bermuda e t-shirt, chiuso in un mondo inaccessibile anche ai suoi più vicini collaboratori. Dotato di moglie e figlia che compaiono solo in fotografia su phone non ancora smart, non si sente tagliato per le relazioni interpersonali (difficile dargli torto) e comunica principalmente via email.

Steve Carell, infine, interpreta un banchiere dedito a smascherare truffe e raggiri, colpito da poco dal suicidio del fratello, che sembra fare di ogni vicenda una battaglia vitale e personale. E’ quello che, insieme al personaggio di Brad Pitt, si fa molte domande sul risvolto tragico che coinvolgerà milioni di persone se la scommessa contro il sistema banche, cioè contro l’economia americana (e quindi mondiale), dovesse rivelarsi vincente.

E sono forse proprio le grandi questioni etiche ciò che ci lascia davvero La grande scommessa: sedimentano nelle nostre teste, una volta setacciata la fitta trama e accantonata la miriade di informazioni tecnico-finanziarie da cui siamo bombardati dall’inizio alla fine.

La responsabilità personale dove arriva? Fino a che punto siamo vittime e dove iniziamo ad essere carnefici? Si può davvero combattere il sistema essendo una parte di esso? La giustizia esiste o esistono cifre in grado di comprare tutto? Che ruolo ha l’informazione nella costruzione e nel mantenimento del potere? Chi può dirsi davvero dalla parte della verità?

 “Non è colpa nostra, è così che va il mondo”

dice una dirigente della Standard and Poor’s al banchiere che le chiede conto del meccanismo malato e vizioso messo in moto dai mutui subprime.

Basta questo ad assolverci?

Il ponte delle Spie. Perché secondo me non dovreste perderlo.

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Se qualcuno ha ancora dei dubbi su chi bisognava tifare ai tempi della guerra fredda, questo film glieli toglierà subito: USA tutta la vita. Democrazia, imperfetta certo, ma reale e in ogni caso preferibile alla mancanza di libertà, all’uguaglianza finta e stucchevole, al tetro reticolo burocratico dell’URSS e dei suoi Stati satelliti.

D’altra parte è un film di Spielberg: la scelta tra il bene e il male è scontata e inevitabile. Ci pensa però la sceneggiatura dei fratelli Coen a infarcirlo con battute taglienti e uno stile decisamente sarcastico.

Atmosfera anni ’50 – il decennio successivo si affaccia ma non fa in tempo a dettare lo stile – donne con vite minuscole strette in busti steccati, reggiseni a punta, gonne sartoriali, camicette di seta, golfini d’angora, décolletés tacco 5, perle al collo e ai lobi. Uomini in abiti blu o grigi, cravatte sottili, cappotti dalle spalle ampie, borsalino portati di sbieco. Un’eleganza che non esiste più e che non sapremmo ricreare nemmeno volendo: lo spirito di ogni epoca è irreversibile e unico.

Un mondo diviso tra buoni e cattivi in modo abbastanza severo, dove l’avvocato assicurativo Donovan ha ben presente il suo posto. All’inizio sembra solo uno dei tanti rappresentanti della middle class americana, cinico quanto basta, sposato con una bionda curatissima, tre figli carini, villetta e la vita prestabilita. Uno strato di sana ipocrisia – “non importa che sia la verità, dammi qualcosa a cui aggrapparmi”, dice la moglie ad un certo punto- a cementare il tutto.

Trovarsi a difendere il presunto agente segreto russo Abel gli dona uno spessore che altrimenti non avremmo immaginato. Donovan si rivela, come gli dirà lo stesso Abel, un “uomo tutto d’un pezzo”.  È un avvocato, e non sarà meno scrupoloso solo perché il suo assistito è considerato un comunista nemico degli USA. Di sicuro pesa il fascino che esercita su di lui la figura di Abel, serafico in ogni situazione, mai turbato o preoccupato. Quando Donovan gliene chiede conto, il russo risponde con uno spiazzante “Servirebbe?”.

Il rapporto tra i due va oltre quello professionale: si crea un legame che definire di amicizia è forse troppo, ma che di sicuro è basato sul rispetto reciproco. Non è poco in quella situazione, in quel periodo.

L’integrità e la fedeltà alla Costituzione americana – “il manuale delle regole” che garantisce la convivenza civile – lo fa approdare addirittura nella Berlino dove si sta costruendo il muro e lo introduce nel mondo della CIA e dei servizi segreti del blocco sovietico, dove si muove con testardaggine, abilità, spregiudicatezza e anche un po’ d’incoscienza. Fedele a se stesso in modo quasi commovente, Donovan ci piace perché è lui il vero eversivo, non Abel: rifiuta l’apparenza, sfugge da ciò che gli altri si aspettano faccia, sceglie la via più complicata ma che ritiene la più giusta. Crede e lavora per trovare soluzioni ai conflitti del suo tempo.

Una sorta di manifesto del pensiero che lo guida si trova nella frase che pronuncia verso la fine del film: “Ragazzo, non conta quello che pensano gli altri, tu sai quello che hai fatto”. Bravo Donovan, di speranza abbiamo bisogno come il pane.

Stessa spiaggia, stesso mare

E anche quest’estate andremo in vacanza a Cesenatico, come gli ultimi quindici anni.

Da quando mi sono fidanzata con Luca non abbiamo mai cambiato meta: all’inizio era comodo perché sua madre aveva un bilocale in affitto lì da anni in una palazzina con altri appartamenti per turisti, conosceva il locatore, il prezzo era buono e noi avevamo pochi soldi da spendere. E poi Rimini e Riccione erano a un tiro di schioppo.

Gli anni successivi, per pigrizia e abitudine, ogni volta che si presentava il periodo di scegliere le vacanze estive finivamo con il prenotare l’appartamento di Cesenatico. Sempre lo stesso, sempre vicino a quello di mia suocera e mia cognata.

E quest’anno non è andata diversamente.

Che dire? Ci troviamo bene: ormai anche noi conosciamo da tempo Santino, il padrone di casa, e lo consideriamo della famiglia. E’ un bravo signore, ben oltre i settant’anni, che ha un unico figlio a cui però non lascia gestire niente. Né lo stabilimento in spiaggia né gli appartamenti. Io credo che dovrebbe mollare un po’ la presa, altrimenti quando morirà sarà un disastro. Il figlio dice che gli sta bene così, però dice anche

“quando mio padre se ne andrà, mi sa che venderò tutto e vivrò a Cuba”

L’appartamento che affittiamo è davvero carino: certo, un po’ vecchio, con gli infissi che sarebbero da rifare – e non solo quelli – ma Santino accampa ogni anno una scusa diversa. Non ha i soldi, il falegname è pieno di lavoro… insomma, non ha mai fatto un ammodernamento. Pazienza.

Almeno siamo vicinissimi al mare: attraversi la strada e sei in spiaggia. Nello stabilimento c’è un’area giochi dove mia figlia Martina passa le sue giornate – quando non è in acqua. Oddio, anche l’altalena, lo scivolo e magari il tavolo da ping pong andrebbero cambiati, avranno vent’anni! Ho provato a dirglielo, a Santino, ma mica ci sente da quell’orecchio.

Ad ogni modo, domani si parte. Sto finendo le valigie: non so come mai ma sono sempre il doppio di quello che preventivavo prima di iniziarle, e so già che Luca brontolerà

“ma ti devi sempre portar dietro la casa?”

Mi sembra di sentirlo. In effetti ha anche un po’ di ragione, però ho messo via solo cose necessarie. Per Martina, soprattutto. Con una bimba piccola devi sempre pensare a mille evenienze; Luca non capisce. Che ne sa lui di quante cose servono? Non si prepara neanche la sua, di valigia, figurati quella di nostra figlia.

Partenza come sempre alle 4 di notte per evitare il traffico, soprattutto vicino a Bologna; arrivo previsto in tempo per fare la prima colazione al mare. Poi dovrò passare la giornata a disfare i bagagli, a pulire, a controllare di non aver dimenticato nulla, mentre Luca porterà Martina in spiaggia a giocare. Probabilmente dopo un’ora torneranno, lei in lacrime e lui arrabbiato perché hanno litigato. È incredibile, ma Luca è capace di mettersi allo stesso livello di una bimba di quattro anni e litigarci come farebbe un coetaneo. Così dovrò lasciare quello che stavo facendo e mettermi a consolare Martina e pure cercare di far passare la luna a Luca.

Per fortuna ci sono i nostri amici! Ci conosciamo da anni, siamo cresciuti insieme e ora abbiamo quasi tutti figli. Quando usciamo insieme siamo piuttosto rumorosi, ma frequentiamo sempre gli stessi posti e lo sanno che facciamo confusione.

Certo che anche tra gli amici possono capitare degli screzi, come quando Paolo ha scoperto che Lucia lo tradiva con Enea… che situazione imbarazzante! Io e Luca siamo amici di tutti e tre e non sapevamo bene come comportarci. Ora Lucia ha lasciato anche Enea e sta con un altro, non la vediamo più. Enea e Paolo, dopo un periodo un po’ così, sono tornati come prima.

Sarà il caso che mi sbrighi a finire i bagagli, altrimenti non partiamo più.